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foto di @CamillaChiara


Si parla di crisi della società, di crisi della politica, di un paese alla deriva che ha bisogno di recuperare i propri principi etici, di nuove generazioni che sembra abbiano come unica prospettiva quella di scappare all’estero, portandosi appresso tutto il rancore per ciò che non funziona né mai funzionerà.
Una domanda però non ci siamo forse ancora posti a sufficienza.
Noi adulti cosa facciamo veramente per crescere quello che sarà il futuro capitale umano[1] e sociale[2] della nostra collettività, cioè i nostri figli? Cosa facciamo attualmente per  fortificare le competenze necessarie a questo particolare tipo di capitale, che è il più importante? Siamo consapevoli della responsabilità che abbiamo come genitori o educatori in genere? Oltre alle previsioni apocalittiche, siamo capaci di trasmettere ai giovani quella fiducia che spesso permette di avviare la spinta propositiva e  creativa delle persone?
Dobbiamo quindi chiederci quali saranno i cittadini del futuro e come li stiamo crescendo.
Dimenticando troppo spesso che il futuro dei nostri figli dipende proprio da noi, oggi, subito, spesso non ricordiamo di indicare loro quale sia la strada da intraprendere per cercare un equilibrio tra il benessere materiale e quello dell’anima o magari, data la difficoltà per noi stessi di trovarlo, non proviamo, per lo meno, a cercarlo insieme a loro.
 È certamente importante, intanto, suggerire loro di non piangersi addosso, dando invece spazio all’impegno, alla fantasia, alla fiducia, ai sogni, al desiderio, all’etica.
I principi etici hanno sempre ispirato grandi correnti politiche e movimenti di opinione nel tentativo di condividere una visione comune della vita e nella speranza di cambiare le cose.
A tal proposito, bisognerebbe prima di tutto convincersi che le grandi scelte etiche non dimorano solamente nei libri di storia ma ci riguardano da vicino, ogni momento, ogni giorno della nostra vita, soprattutto riguardano ognuno di noi.
Il momento di scegliere tra il bene e il male non si manifesta come nei film, come fosse un grande evento spettacolare.  È nella vita quotidiana di tutti i giorni e nelle piccole scelte apparentemente insignificanti che scegliamo se essere delle persone vere o dei semplici replicanti.
Questo, dunque, dobbiamo spiegare al “nostro futuro capitale umano”: le scelte, anche quelle importanti, si manifestano a noi con grande semplicità e nella vita di tutti i giorni. 
Sono le scelte che riguardano l’impegno nello studio, nel lavoro e nei confronti del nostro prossimo. Parte dal  rispetto di noi stessi, dei nostri figli, dei nostri genitori, dei nostri amici, dei professori, dei compagni, delle persone in difficoltà che vediamo per strada.
A parole, forse, pochi non sarebbero d’accordo sui principi fondamentali dell’etica e del rispetto, tuttavia è giusto domandarsi  se siamo sempre attenti nel quotidiano a rispettare veramente tali principi e a farli rispettare ai nostri figli.
Partendo, certamente, proprio dal rispetto che noi genitori dobbiamo avere nei confronti della loro identità anche quando non ci somigliano, come suggerisce la giornalista Barbara Stefanelli  in un suo recente articolo[3].
È infatti giusto ricordare che i figli non sono una nostra proprietà esclusiva. Ciò, tuttavia, non deve esimerci dal dovere genitoriale di insegnare loro a discernere tra il bene e il male. Questo significa indicare quali scelte siano preferibili e quali no in determinati contesti.
Perché troppo spesso sembra mancare ai giovani un riferimento adulto, saggio e responsabile.
Forse siamo troppo autocritici per immaginarci educatori o forse è un nostro alibi per non assumerci la responsabilità di indicare ai nostri figli una scelta, anche se non di maggioranza.
Perché in alcuni casi, forse, non abbiamo il coraggio di accettare la frustrazione di sapere i nostri figli soli e per questo motivo, talvolta, accettiamo implicitamente i loro comportamenti scorretti.
Dovremmo, invece, suggerire loro che non si tradisce, che non si mette in gioco un’amicizia per un desiderio  superficiale, che non si manca ad un impegno con un amico. Così come a scuola, dove ognuno deve impegnarsi nei limiti delle proprie facoltà e dove è giusto rispettare le regole di base. A scuola non si copia, ad esempio, perché non è corretto nei confronti prima di tutto di se stessi ed anche dei compagni e dei professori. Nello studio, così come nel lavoro, non si giunge a compromessi per raggiungere l’obiettivo desiderato ma, anche a rischio di subire una sconfitta, si devono usare le proprie forze. 
Perché - e sempre da noi adulti dovrebbe arrivare questa sollecitazione -  il motore onesto dell’agire etico spesso è l’indignazione, che stimola ad una spinta migliorativa, inizialmente dentro noi stessi. Una spinta che dovrebbe indurre all’approfondimento per contrastare la superficialità, che dovrebbe darci la forza, quando necessario, di cambiare direzione, senza mai dimenticarci di noi  stessi , del nostro orgoglio e della “coscienza di sé”.
Talvolta, invece, per non apparire retrogradi agli occhi dei nostri figli o degli amici, noi genitori accettiamo comportamenti anche gravemente scorretti.
Ed è proprio questo il punto: la connivenza genitoriale nei comportamenti scorretti.
Trovo che sia, come minimo, ingenuo pensare che la trasgressione possa essere accompagnata o implicitamente consigliata da un favoreggiamento genitoriale.
Ciò che dovrebbe apparire agli occhi di un ragazzo come trasgressione o, ancor di più come violazione, appare spesso come una delle tante possibilità a sua disposizione.
E sfido ogni genitore a non sentirsi preso in causa per aver adottato tale comportamento di superficiale concessione con i propri figli almeno una volta nella vita, mentendo a se stessi sulle implicite motivazioni.
Così facendo i nostri figli crescono pensando che sia facile passarla liscia perché spesso non ricevono alcun segnale d’allarme né dai genitori né dagli insegnanti.
In questo modo si produce all’origine una delle caratteristiche peculiari della parte malata del nostro sistema e cioè quello di pensare di essere, sotto sotto, “abilitati alla violazione delle regole”, ponendo così  le basi per una distorta comprensione tra “sana” trasgressione e violazione delle regole.
Allora di cosa parliamo quando pronunciamo parole come merito, impegno, creatività, rispetto (del prossimo e delle regole), buone pratiche, impegno politico e sociale, se i nostri figli adottano talvolta condotte ai limiti della legalità, con il nostro, seppure implicito, benestare?
L’essere ribelle per un giovane può costituire un passaggio della crescita. Perfino il Papa suggerisce ai giovani di essere ribelli, volendo  intendere in questo senso andare, se necessario, contro corrente, facendosi condurre dal proprio cuore, in sintonia con la propria mente. La vera e sana ribellione però nasce da un processo di crescita personale, di libertà di pensiero, di onestà intellettuale.
Non è certamente la trasgressione fine a se stessa che traghetta un giovane nella vita adulta così come non facilita la sua capacità critica l’adeguarsi ad un certo tipo di non convenzionalità precostituita.
Qualche tempo fa un appassionato articolo del Presidente di Forum PA[4], che aveva a suo tempo rivolto ai dirigenti pubblici un’indagine sulla corruzione (orientata a comprendere la percezione di tale piaga all’interno della pubblica amministrazione), recuperava con audacia, quasi scusandosene con i lettori, la locuzione “banalità del male”, adottata da Hannah Arendt nel suo libro inchiesta sul processo ad un criminale nazista, riferendosi a quanto avviene oggi nel quotidiano.
Era sgomento davanti a tanta superficialità e mancanza di serietà che lui stesso riscontrava  in molti comportamenti nella vita lavorativa e nella vita quotidiana, il tutto nell’assoluta indifferenza generale.
Forse non era così azzardato il recupero lessicale proposto. Purtroppo capita anche di frequente constatare quanto sia pericolosa l’indolenza etica e la stupidità colpevole, spesso causata da semplice ignavia.
L’ignavia ha in molti casi portato gli uomini molto lontano. Magari inconsapevolmente, li ha traghettati su sponde prive di senso e cariche di crudeltà. Ciò purtroppo avviene ancora.
Per quanto riguarda l’impostazione educativa attuale, negli anni, un passo importante è stato fatto e cioè comprendere come con l’autoritarismo non si ottenga niente, anzi si ottenga semmai il contrario. E’ la capacità di esercitare l’autorevolezza che fa la differenza.
Tuttavia sembra che alcuni genitori, dopo avere troppo viziato i figli nell’infanzia, se non proseguono su questa stessa china anche dopo, si ritrovano poi a governare i figli adolescenti a suon di autoritarismo perché non trovano più gli strumenti adeguati per governare gli eccessi trasgressivi.
Ne parla un giornalista del Corriere della Sera nel suo articolo La colpevole assenza dei padri incapaci di educare[5] .
Così facendo perdiamo la possibilità di crescere con amore responsabile e adulto i nostri figli.
Volendo fare un passo in più nella riflessione sul potenziale educativo degli italiani merita dare uno sguardo ad un recentissimo lavoro dell’Istituto Censis sugli attuali valori degli italiani[6].
Tra i tanti spunti interessanti sono emerse alcune considerazioni sulla mancanza, nello scenario italiano, di temi sociali aggreganti. Temi cioè che un tempo determinavano aggregazione politica e sociale.
Secondo la ricerca, il tema che attualmente sembra appassionare maggiormente  gli italiani pare sia l’esigenza di individuare chi non paga le tasse. La principale “tensione” (termine usato dal sociologo De Rita) che coinvolge la maggior parte dei nostri connazionali è frutto di un risentimento, di rabbia e di rivalsa, che non proviene tanto dalla consapevolezza dell’importanza del concetto redistributivo insito nel pagare le tasse quanto, e questa è una mia personale riflessione, dal desiderio di trovare un nemico a tutti i costi.
Non c’è tensione positiva, ha ribadito il sociologo, così come non c’è rappresentanza. La sola indignazione non basta per creare aggregazione. Ci vuole qualcosa di più che in questo momento storico manca.
Ciò che sembra mancare in particolare, secondo quanto emerge dall’indagine svolta dall’istituto di ricerca, è la figura del pastore, del padre che indica la strada da intraprendere e crea aggregazione.
Siamo orfani, dunque, di figure paterne autorevoli che indichino la strada da percorrere e che riescano a creare quel tipo di aggregazione sociale intermedia nella quale potersi  riconoscere ed impegnarsi per degli ideali.
O forse non riusciamo più a riconoscere coloro che potrebbero rappresentare delle figure di riferimento, etiche e trainanti. Certamente esistono, ma non siamo in grado di individuarle nella folla di urloni e capobanda.
Che nelle famiglie italiane spesso manchi una più pregnante figura paterna lo si dice da tanto tempo[7]. L’urlo di dolore delle madri sole, senza un aiuto collaborativo nell’educazione e nella crescita dei figli, non sembra abbia dato gli esiti sperati.
Ciò che inquieta, inoltre, è quanto l’evoluzione della nostra specie faccia intravvedere all’orizzonte del nostro immaginario italiano (ma forse non solo italiano) e cioè la prospettiva di un’assenza anche della figura materna.
L’immagine della donna, svilita come non mai prima d’ora,  viene spesso risolta a suon di quote rosa e di appelli alla libera gestione della propria libertà ed emancipazione.
È certamente vero che sia ancora necessario abbattere il cosiddetto muro di cristallo, ma non si può negare che la realtà della maggior parte delle donne sia tuttora costituita soprattutto dalla inevitabile e travagliata scelta se abbandonare il proposito di fondare responsabilmente una famiglia oppure abbandonare il lavoro.
Ciò succede molto meno nella maggior parte degli altri stati europei dove le donne che lavorano sono percentualmente molte di più e dove sono presenti tassi di fecondità ben più elevati dei nostri[8]. Dovremmo riflettere molto su questo aspetto!
Per scrollarci di dosso l’identificazione di noi stesse in quanto solo ed esclusivamente madri, abbiamo forse inconsapevolmente svuotato di senso l’identità materna, aderendo sempre di più a quelle caratteristiche maschili che non ci appartengono affatto.
Non credo che il problema nodale per le donne sia quello di essere state costrette a sublimare la loro aggressività, come sostiene Dacia Maraini in un suo articolo di qualche tempo fa [9], credo più che altro che non siamo ancora riuscite a imporre socialmente il peso e il senso dell’immagine della donna.                
Una cosa è certamente vera, come sostiene l’autorevole scrittrice, e cioè che gli uomini, così come accade più facilmente per le donne, debbano imparare a guidare i loro istinti, prima conoscendoli e poi sublimandoli.
Dunque, per ciò che riguarda il contesto di vita femminile, invece di sostenere implicitamente l’allontanamento dall’importante ruolo materno, sarebbe più giusto aiutare le madri a vivere nel modo migliore la propria maternità e di condividerla col proprio compagno, ridefinendo veramente i giusti ritmi ei giusti tempi, per uomini e donne.
Ciò non riguarda esclusivamente  i padri e le madri. Riguarda gli zii e le zie, le nonne e i nonni, gli educatori e le educatrici. Siamo tutti noi adulti il riferimento primo di coloro che, veramente, saranno il nostro futuro capitale umano e sociale e di questo dobbiamo davvero sentirci responsabili.
Recuperando il principio secondo cui i nostri figli non sono un nostro riservato bene, pur avendo un’esclusiva sull’impostazione educativa, dobbiamo ricordarci sempre che è nella quotidianità che si crea una relazione empatica, duratura e significativa.
Quando l’economista Stefano Zamagni parla di homo oeconomicus che “si deve nutrire anche di relazioni, motivazioni, fiducia, e che l’attività economica abbia bisogno di virtù civili, di tendere al bene comune più che alla ricerca di soddisfazioni individuali”[10], penso si riferisca anche a questo importante ruolo genitoriale.
 Un’impostazione che nel corso del tempo abbiamo abbandonato dimostrando di essere diventati  in molti casi degli affamati di consumismo e arrivando a giudicare ogni cosa secondo principi di scambio di mercato. 
Per non diventare sempre di più quella aberrante e perversa società ritratta nel film di Sorrentino[11] dove la volgarità prende il sopravvento e dove la rappresentazione falsa di se stessi la fa da padrona, e dove nella maggior parte dei casi ci perdono  i più deboli, dobbiamo rivedere senza dubbio la scala di valori e di priorità che governa le nostre vite, non dimenticando mai che i nostri figli saranno i cittadini del futuro.

@PRODUZIONE RISERVATA - La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che ne sia citata la fonte
















*Ricercatrice Economica e Sociale
 http://27esimaora.corriere.it/articolo/il-futuro-capitale-umanosono-i-nostri-figli/ 
http://27esimaora.corriere.it/autore/francesca-balboni/
www.datieopinioni.it

[1] Definizione di capitale umano su http://it.wikipedia.org/wiki/Capitale_umano.
[2] Definizione di capitale sociale da Robert D. Putnam: “La fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo” da La tradizione civica nelle Regioni italiane, 1993, p. 196.
[5] Matteo Lancini, La colpevole assenza dei padri diventati incapaci di educare, 13 novembre 2013.
[6] Censis, I valori degli italiani 2013, Marsilio Ed.
[7]La bibliografia è molto ricca sul tema. Uno per tutti il libro di Claudio Risè, Il Padre. L’ assente inaccettabile, Ed. San Paolo, 2003.
[11] Paolo Sorrentino, La grande bellezza, 2013

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