Si parla di crisi della
società, di crisi della politica, di un paese alla deriva che ha bisogno di
recuperare i propri principi etici, di nuove generazioni che sembra abbiano
come unica prospettiva quella di scappare all’estero, portandosi appresso tutto
il rancore per ciò che non funziona né mai funzionerà.
Una domanda però non ci
siamo forse ancora posti a sufficienza.
Noi adulti cosa facciamo
veramente per crescere quello che sarà il futuro capitale umano[1]
e sociale[2]
della nostra collettività, cioè i nostri figli? Cosa facciamo attualmente
per fortificare le competenze necessarie
a questo particolare tipo di capitale, che è il più importante? Siamo
consapevoli della responsabilità che abbiamo come genitori o educatori in
genere? Oltre alle previsioni apocalittiche, siamo capaci di trasmettere ai
giovani quella fiducia che spesso permette di avviare la spinta propositiva e creativa delle persone?
Dobbiamo quindi
chiederci quali saranno i cittadini del futuro e come li stiamo crescendo.
Dimenticando troppo
spesso che il futuro dei nostri figli dipende proprio da noi, oggi, subito, spesso
non ricordiamo di indicare loro quale sia la strada da intraprendere per
cercare un equilibrio tra il benessere materiale e quello dell’anima o magari,
data la difficoltà per noi stessi di trovarlo, non proviamo, per lo meno, a
cercarlo insieme a loro.
È certamente importante, intanto, suggerire loro
di non piangersi addosso, dando invece spazio all’impegno, alla fantasia, alla
fiducia, ai sogni, al desiderio, all’etica.
I principi etici hanno
sempre ispirato grandi correnti politiche e movimenti di opinione nel tentativo
di condividere una visione comune della vita e nella speranza di cambiare le
cose.
A tal proposito, bisognerebbe
prima di tutto convincersi che le grandi scelte etiche non dimorano solamente
nei libri di storia ma ci riguardano da vicino, ogni momento, ogni giorno della
nostra vita, soprattutto riguardano ognuno di noi.
Il momento di scegliere
tra il bene e il male non si manifesta come nei film, come fosse un grande
evento spettacolare. È nella vita
quotidiana di tutti i giorni e nelle piccole scelte apparentemente
insignificanti che scegliamo se essere delle persone vere o dei semplici
replicanti.
Questo, dunque, dobbiamo
spiegare al “nostro futuro capitale umano”: le scelte, anche quelle importanti,
si manifestano a noi con grande semplicità e nella vita di tutti i giorni.
Sono le scelte che
riguardano l’impegno nello studio, nel lavoro e nei confronti del nostro
prossimo. Parte dal rispetto di noi
stessi, dei nostri figli, dei nostri genitori, dei nostri amici, dei professori,
dei compagni, delle persone in difficoltà che vediamo per strada.
A parole, forse, pochi
non sarebbero d’accordo sui principi fondamentali dell’etica e del rispetto, tuttavia
è giusto domandarsi se siamo sempre
attenti nel quotidiano a rispettare veramente tali principi e a farli
rispettare ai nostri figli.
Partendo, certamente,
proprio dal rispetto che noi genitori dobbiamo avere nei confronti della loro
identità anche quando non ci somigliano, come suggerisce la giornalista Barbara
Stefanelli in un suo recente articolo[3].
È infatti giusto
ricordare che i figli non sono una nostra proprietà esclusiva. Ciò, tuttavia,
non deve esimerci dal dovere genitoriale di insegnare loro a discernere tra il
bene e il male. Questo significa indicare quali scelte siano preferibili e
quali no in determinati contesti.
Perché troppo spesso
sembra mancare ai giovani un riferimento adulto, saggio e responsabile.
Forse siamo troppo
autocritici per immaginarci educatori o forse è un nostro alibi per non
assumerci la responsabilità di indicare ai nostri figli una scelta, anche se
non di maggioranza.
Perché in alcuni casi, forse,
non abbiamo il coraggio di accettare la frustrazione di sapere i nostri figli
soli e per questo motivo, talvolta, accettiamo implicitamente i loro
comportamenti scorretti.
Dovremmo, invece, suggerire
loro che non si tradisce, che non si mette in gioco un’amicizia per un
desiderio superficiale, che non si manca
ad un impegno con un amico. Così come a scuola, dove ognuno deve impegnarsi nei
limiti delle proprie facoltà e dove è giusto rispettare le regole di base. A
scuola non si copia, ad esempio, perché non è corretto nei confronti prima di
tutto di se stessi ed anche dei compagni e dei professori. Nello studio, così
come nel lavoro, non si giunge a compromessi per raggiungere l’obiettivo desiderato
ma, anche a rischio di subire una sconfitta, si devono usare le proprie
forze.
Perché - e sempre da noi
adulti dovrebbe arrivare questa sollecitazione - il motore onesto dell’agire etico spesso è
l’indignazione, che stimola ad una spinta migliorativa, inizialmente dentro noi
stessi. Una spinta che dovrebbe indurre all’approfondimento per contrastare la
superficialità, che dovrebbe darci la forza, quando necessario, di cambiare
direzione, senza mai dimenticarci di noi stessi , del nostro orgoglio e della “coscienza
di sé”.
Talvolta, invece, per
non apparire retrogradi agli occhi dei nostri figli o degli amici, noi genitori
accettiamo comportamenti anche gravemente scorretti.
Ed è proprio questo il
punto: la connivenza genitoriale nei comportamenti scorretti.
Trovo che sia, come
minimo, ingenuo pensare che la trasgressione possa essere accompagnata o implicitamente
consigliata da un favoreggiamento genitoriale.
Ciò che dovrebbe apparire
agli occhi di un ragazzo come trasgressione o, ancor di più come violazione, appare
spesso come una delle tante possibilità a sua disposizione.
E sfido ogni genitore a
non sentirsi preso in causa per aver adottato tale comportamento di
superficiale concessione con i propri figli almeno una volta nella vita,
mentendo a se stessi sulle implicite motivazioni.
Così facendo i nostri
figli crescono pensando che sia facile passarla liscia perché spesso non
ricevono alcun segnale d’allarme né dai genitori né dagli insegnanti.
In questo modo si
produce all’origine una delle caratteristiche peculiari della parte malata del
nostro sistema e cioè quello di pensare di essere, sotto sotto, “abilitati alla
violazione delle regole”, ponendo così le basi per una distorta comprensione tra “sana”
trasgressione e violazione delle regole.
Allora di cosa parliamo quando
pronunciamo parole come merito, impegno, creatività, rispetto (del prossimo e
delle regole), buone pratiche, impegno politico e sociale, se i nostri figli adottano
talvolta condotte ai limiti della legalità, con il nostro, seppure implicito,
benestare?
L’essere ribelle per un
giovane può costituire un passaggio della crescita. Perfino il Papa suggerisce
ai giovani di essere ribelli, volendo
intendere in questo senso andare, se necessario, contro corrente, facendosi
condurre dal proprio cuore, in sintonia con la propria mente. La vera e sana
ribellione però nasce da un processo di crescita personale, di libertà di
pensiero, di onestà intellettuale.
Non è certamente la
trasgressione fine a se stessa che traghetta un giovane nella vita adulta così
come non facilita la sua capacità critica l’adeguarsi ad un certo tipo di non
convenzionalità precostituita.
Qualche tempo fa un appassionato
articolo del Presidente di Forum PA[4],
che aveva a suo tempo rivolto ai dirigenti pubblici un’indagine sulla
corruzione (orientata a comprendere la percezione di tale piaga all’interno
della pubblica amministrazione), recuperava con audacia, quasi scusandosene con
i lettori, la locuzione “banalità del male”, adottata da Hannah Arendt nel suo
libro inchiesta sul processo ad un criminale nazista, riferendosi a quanto
avviene oggi nel quotidiano.
Era sgomento davanti a
tanta superficialità e mancanza di serietà che lui stesso riscontrava in molti comportamenti nella vita lavorativa
e nella vita quotidiana, il tutto nell’assoluta indifferenza generale.
Forse non era così
azzardato il recupero lessicale proposto. Purtroppo capita anche di frequente
constatare quanto sia pericolosa l’indolenza etica e la stupidità colpevole, spesso
causata da semplice ignavia.
L’ignavia ha in molti
casi portato gli uomini molto lontano. Magari inconsapevolmente, li ha traghettati
su sponde prive di senso e cariche di crudeltà. Ciò purtroppo avviene ancora.
Per quanto riguarda
l’impostazione educativa attuale, negli anni, un passo importante è stato fatto
e cioè comprendere come con l’autoritarismo non si ottenga niente, anzi si ottenga
semmai il contrario. E’ la capacità di esercitare l’autorevolezza che fa la
differenza.
Tuttavia sembra che alcuni
genitori, dopo avere troppo viziato i figli nell’infanzia, se non proseguono su
questa stessa china anche dopo, si ritrovano poi a governare i figli adolescenti
a suon di autoritarismo perché non trovano più gli strumenti adeguati per
governare gli eccessi trasgressivi.
Ne parla un giornalista
del Corriere della Sera nel suo articolo La
colpevole assenza dei padri incapaci di educare[5]
.
Così facendo perdiamo la
possibilità di crescere con amore responsabile e adulto i nostri figli.
Volendo fare un passo in
più nella riflessione sul potenziale educativo degli italiani merita dare uno
sguardo ad un recentissimo lavoro dell’Istituto Censis sugli attuali valori
degli italiani[6].
Tra i tanti spunti
interessanti sono emerse alcune considerazioni sulla mancanza, nello scenario
italiano, di temi sociali aggreganti. Temi cioè che un tempo determinavano
aggregazione politica e sociale.
Secondo la ricerca, il
tema che attualmente sembra appassionare maggiormente gli italiani pare sia l’esigenza di individuare
chi non paga le tasse. La principale “tensione” (termine usato dal sociologo De
Rita) che coinvolge la maggior parte dei nostri connazionali è frutto di un risentimento,
di rabbia e di rivalsa, che non proviene tanto dalla consapevolezza dell’importanza
del concetto redistributivo insito nel pagare le tasse quanto, e questa è una
mia personale riflessione, dal desiderio di trovare un nemico a tutti i costi.
Non c’è tensione
positiva, ha ribadito il sociologo, così come non c’è rappresentanza. La sola
indignazione non basta per creare aggregazione. Ci vuole qualcosa di più che in
questo momento storico manca.
Ciò che sembra mancare
in particolare, secondo quanto emerge dall’indagine svolta dall’istituto di
ricerca, è la figura del pastore, del padre che indica la strada da
intraprendere e crea aggregazione.
Siamo orfani, dunque, di figure paterne autorevoli che indichino la strada da percorrere e che
riescano a creare quel tipo di aggregazione sociale intermedia nella quale
potersi riconoscere ed impegnarsi per
degli ideali.
O forse non riusciamo
più a riconoscere coloro che potrebbero rappresentare delle figure di
riferimento, etiche e trainanti. Certamente esistono, ma non siamo in grado di individuarle
nella folla di urloni e capobanda.
Che nelle famiglie italiane
spesso manchi una più pregnante figura paterna lo si dice da tanto tempo[7].
L’urlo di dolore delle madri sole, senza un aiuto collaborativo nell’educazione
e nella crescita dei figli, non sembra abbia dato gli esiti sperati.
Ciò che inquieta,
inoltre, è quanto l’evoluzione della nostra specie faccia intravvedere
all’orizzonte del nostro immaginario italiano (ma forse non solo italiano) e
cioè la prospettiva di un’assenza anche della figura materna.
L’immagine della donna,
svilita come non mai prima d’ora, viene spesso
risolta a suon di quote rosa e di appelli alla libera gestione della propria
libertà ed emancipazione.
È certamente vero che sia
ancora necessario abbattere il cosiddetto muro di cristallo, ma non si può
negare che la realtà della maggior parte delle donne sia tuttora costituita soprattutto
dalla inevitabile e travagliata scelta se abbandonare il proposito di fondare responsabilmente
una famiglia oppure abbandonare il lavoro.
Ciò succede molto meno
nella maggior parte degli altri stati europei dove le donne che lavorano sono
percentualmente molte di più e dove sono presenti tassi di fecondità ben più
elevati dei nostri[8].
Dovremmo riflettere molto su questo aspetto!
Per scrollarci di dosso
l’identificazione di noi stesse in quanto solo ed esclusivamente madri, abbiamo
forse inconsapevolmente svuotato di senso l’identità materna, aderendo sempre
di più a quelle caratteristiche maschili che non ci appartengono affatto.
Non credo che il
problema nodale per le donne sia quello di essere state costrette a sublimare
la loro aggressività, come sostiene Dacia Maraini in un suo articolo di qualche
tempo fa [9],
credo più che altro che non siamo ancora riuscite a imporre socialmente il peso
e il senso dell’immagine della donna.
Una cosa è certamente
vera, come sostiene l’autorevole scrittrice, e cioè che gli uomini, così come
accade più facilmente per le donne, debbano imparare a guidare i loro istinti,
prima conoscendoli e poi sublimandoli.
Dunque, per ciò che
riguarda il contesto di vita femminile, invece di sostenere implicitamente
l’allontanamento dall’importante ruolo materno, sarebbe più giusto aiutare le
madri a vivere nel modo migliore la propria maternità e di condividerla col
proprio compagno, ridefinendo veramente i giusti ritmi ei giusti tempi, per
uomini e donne.
Ciò non riguarda esclusivamente
i padri e le madri. Riguarda gli zii e le
zie, le nonne e i nonni, gli educatori e le educatrici. Siamo tutti noi adulti il
riferimento primo di coloro che, veramente, saranno il nostro futuro capitale
umano e sociale e di questo dobbiamo davvero sentirci responsabili.
Recuperando il principio
secondo cui i nostri figli non sono un nostro riservato bene, pur avendo
un’esclusiva sull’impostazione educativa, dobbiamo ricordarci sempre che è
nella quotidianità che si crea una relazione empatica, duratura e significativa.
Quando l’economista
Stefano Zamagni parla di homo oeconomicus
che “si deve nutrire anche di relazioni, motivazioni, fiducia, e che l’attività
economica abbia bisogno di virtù civili, di tendere al bene comune più che alla
ricerca di soddisfazioni individuali”[10],
penso si riferisca anche a questo importante ruolo genitoriale.
Un’impostazione che nel corso del tempo
abbiamo abbandonato dimostrando di essere diventati in molti casi degli affamati di consumismo e
arrivando a giudicare ogni cosa secondo principi di scambio di mercato.
Per non diventare sempre
di più quella aberrante e perversa società ritratta nel film di Sorrentino[11]
dove la volgarità prende il sopravvento e dove la rappresentazione falsa di se
stessi la fa da padrona, e dove nella maggior parte dei casi ci perdono i più deboli, dobbiamo rivedere senza dubbio
la scala di valori e di priorità che governa le nostre vite, non dimenticando
mai che i nostri figli saranno i cittadini del futuro.
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sia citata la fonte
*Ricercatrice Economica e Sociale
http://27esimaora.corriere.it/articolo/il-futuro-capitale-umanosono-i-nostri-figli/
http://27esimaora.corriere.it/autore/francesca-balboni/
www.datieopinioni.it
http://27esimaora.corriere.it/articolo/il-futuro-capitale-umanosono-i-nostri-figli/
http://27esimaora.corriere.it/autore/francesca-balboni/
www.datieopinioni.it
[1]
Definizione di capitale umano su http://it.wikipedia.org/wiki/Capitale_umano.
[2]
Definizione di capitale sociale da Robert D. Putnam: “La fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo
civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale
promuovendo iniziative prese di comune accordo” da La tradizione civica nelle Regioni italiane, 1993, p. 196.
[5] Matteo
Lancini, La colpevole assenza dei padri diventati incapaci di educare, 13
novembre 2013.
[6] Censis,
I valori degli italiani 2013, Marsilio Ed.
[7]La
bibliografia è molto ricca sul tema. Uno per tutti il libro di Claudio Risè, Il
Padre. L’ assente inaccettabile, Ed. San Paolo, 2003.
[11] Paolo
Sorrentino, La grande bellezza, 2013
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